Anticipazioni di un saggio sul mio cinema, di Raffaello Alberti, di prossima pubblicazione a cura del DAMS Cosenza.
A un registro verbale che tenta, senza riuscirvi, di racchiudere il reale in una storia (in Témoins Lisboa aout 00), si affianca un registro visivo che presenta una realtà multiforme colta come infinita riserva dei possibili narrativi – territorio in cui infinite storie possono sorgere e spegnersi, esser seguite o abbandonate…
Solo provvisoriamente possiamo chiamare questi due livelli ‘finzione’ e ‘documentario’. In ogni caso, Cioni pare muovere da questa duplice premessa per porre una questione che può esser formulata in questo modo: come raccontare una storia che non si conosce ancora e che nel reale è contenuta per così dire in potenza?
Questione paradossale. Poiché il racconto – qualunque racconto – pare trovare la sua stessa definizione nell’essere la relazione di un episodio passato, ossia di un’esperienza: «Qualche cosa è accaduto, che è stato vissuto e che poi viene narrato». Tuttavia questa legge conosce, lo sappiamo bene, una vistosa eccezione. Il romanzo è esattamente quel tipo di narrazione che, nell’intento di abbracciare l’immensa varietà del reale, procede come a tentoni, cambiando di continuo direzione e ignorando la propria meta.
Si direbbe, pertanto, che il problema che interessa Cioni riguardi il rapporto tra l’indagine della realtà che può essere condotta per mezzo della macchina da presa e la possibilità romanzesca che è come insita in ogni lacerto (anche il più apparentemente insignificante) di quella realtà, e che la stessa cinepresa sarebbe in grado di divinare. Più profondamente, è una questione che concerne lo sguardo e, in particolare, la possibilità del nuovo nella visione.
«Tu guardi ciò che vedi», potrebbe essere l’equivalente cinematografico del principio di identità – la formula dell’adaequatio o della conformità di occhio e oggetto. In tal caso la visione è riconoscimento: verifica di un reale già saputo, già conosciuto – già visto – e, in quanto tale, documentabile. Ma non si potrebbe, al contrario (questa è la domanda che Cioni si pone) immaginare uno sguardo su ciò che non si vede ancora? La visione, in questo caso, non sarebbe più riconoscimento, ma operazione di conoscenza. La formula diventa: «Tu guardi ciò che ancora non hai visto». Qui è il motore dell’erranza che si dispiega in ogni suo film, allorché si ha l’impressione che il movimento sia determinato da un oscuro punto d’attrazione situato al di là di ciò che si vede.
Ed è per questa ragione che il film in Cioni è, in qualche modo, sempre a venire. Non solo perché – mostrando il sopralluogo per un film da fare – il film stesso finisce quasi per coincidere con il processo della propria costruzione; ma perché fa dello sguardo un agente della produzione del nuovo – l’evento – nel visibile, e di questa ricerca lacondizione e, simultaneamente, l’oggetto di un racconto. Con le parole di Blanchot: «Il racconto non è la relazione dell’evento, è l’evento stesso, il suo avvicinarsi, il luogo dov’è chiamato a prodursi, evento ancora a venire, il cui potere di seduzione fa sì che anche il racconto possa sperare di realizzarsi”
(…)
Si è al di là del vero e del falso, in quanto a tutto ciò che vediamo possiamo accordare uno statuto di realtà, non di verità (quei corpi esistono simultaneamente sulla scena, ma chi dei due è il vero Morgan?). Non è il vero allora, è piuttosto un «nuovo Reale, oltre l’attuale e il virtuale» come dice Deleuze a proposito di Renoir, un reale che non conosce più la distinzione tra vero e falso, ma solo la potenza del falso comecreazione di verità. E questo reale è la vita stessa come potenza neutra e invalutabile, al di là del vero e del falso.
Ma il film, ogni volta, non si limita a mostrare il lavoro che dà luogo alla costruzione del reale – il film è questo lavoro, è questa costruzione. Qui risiede, forse, il tratto più rivoluzionario di questo cinema.
Alla fine di Nous/Autres, Helga e Yann si ritrovano e pranzano insieme con gli attori che li impersonavano: si direbbe una ‘riconciliazione’ degli attori con i propri ruoli, l’utopia di uno spazio comune a entrambi (il movimento della cinepresa che li avvolge e li ricomprende tutti, in un unico sguardo): il passato individuale, attraverso il racconto, è ora riconsegnato a questo spazio comune. Celebrare – ritualmente, teatralmente – il passaggio dalla realtà al reale sembra infine trovare il proprio significato più profondo nell’istituzione di questo spazio.
Ma ciò che è ancor più decisivo è che, alla fine – nel corso del film, e grazie al film – qualcosa è mutato; Helga e Yann hanno testimoniato, e non sono più gli stessi che erano all’inizio. E questo il film non si è limitato a documentarlo, ma l’ha prodotto. Non solo il processo di costruzione giunge a coincidere col film stesso, ma, più profondamente, la scrittura del reale giunge a trasformare il reale stesso. È implicita in questo una interrogazione radicale sul rapporto tra il cinema e la vita: sull’interstizio ineliminabile che li separa e sulla loro altrettanto ineluttabile coalescenza; sul fatto che il cinema non può accostarsi al reale senza intervenire a modificarlo intimamente.
(…)
Il finale di Nous/Autres, come certi momenti de Gli intrepidi, sembra accennare, lo si è detto, ad una ‘riconciliazione’ degli attori con i propri ruoli. Tuttavia, tale scioglimento dei conflitti è possibile, evidentemente, soltanto alla fine della storia. In Cioni non si dà nulla di così consolatorio (non è un caso che lo spazio in cui è allestito il banchetto, alla fine di Nous/Autres, abbia ancora una connotazione fortemente teatrale). La fine della storia – ammesso che ci sia qualcosa del genere – è ancora lontana, e il duplice epilogo de Gli intrepidi («postumo», almeno in parte, e dunque ancora tutto dentro al tempo storico) lo enuncia con lucida fermezza: la vita dell’immigrato non è ancora approdata a un lido sicuro e si trascina in mezzo agli affanni; mentre la ‘prigioniera’ non è più tale perché rapita dagli Spagnoli, ma in quanto è intrappolata in un reality show (e il suo sguardo in macchina toglie alla telecamera ogni innocenza).
Si è ancora nel Limbo, o in Purgatorio, malgrado tutto; e si continua a provare e riprovare una parte. Resta la possibilità, «un’esigua possibilità», per i personaggi, di giocare con il proprio ineludibile essere-attori, cioè altri da sé, e di saperne derivare una potenza di metamorfosi e di creazione. Non è detto, in fondo, che si tratti di una condizione tragica. Anzi, come accade ai ragazzi di Barberino, ci si può perfino divertire