IL CINEMA È UN’ESPERIENZA DEL MONDO

(di Carlo Chatrian, aprile 2011, dall’introduzione al Focus a Visions du Réel)

Se il cinema è uno strumento per prendere posto nel mondo, oppure per trovare il suo posto nel mondo, in Giovanni Cioni quest’attività si traduce in un movimento di perdita. Perdita di sé e perdita dei riferimenti che le categorie ospitano di solito. Dov’è la finzione? Dov’è la realtà nei suoi film? Chi è che guarda? E cosa guardiamo davvero?

Una pista d’autoscontro diventa un spazio astratto per svelare l’immaginario contemporaneo degli adolescenti (Lourdes Las Vegas), una casa abbandonata dove una falsa coppia testimonia sia dell’esilio subito che del disprezzo verso nuovi rifugiati (Nous/Autres), un cimitero che si trasforma in città o forse è il contrario (In Purgatorio)… Che sia attraverso luoghi che sfuggono allo sguardo o che sia attraverso incontri con personaggi che non provengono da nessuna parte, Cioni sembra rovesciare il principio che vuole che un documentario sia sempre ancorato in una realtà.

I suoi film propongono dei viaggi in “terrae incognitae”, terre da scoprire quando si trovano al cuore stesso delle nostre società, Bruxelles, Napoli, Lisbona,,, ogni città è la città dove si potrebbe abitare e dove si abita senza però perdere l’attitudine dello straniero.

Un movimento naturale di orientamento compone la geometria di base: ci guardiamo intorno senza esprimere un giudizio, semplicemente per capire dove ci troviamo e con chi. A partire da lì, le cose che ci si immagina, i desideri, i ricordi, hanno un peso grande quanto quello degli oggetti presenti sullo schermo. Questo immaginario rilancia l’immagine verso un livello che è tra finzione e documentario. Oppure che non appartiene né all’una né all’altro.

vedersi altro per vedersi se stessi”

Non una vera storia, non dei ritratti nel senso tradizionale del termine, nessuna contemplazione né osservazione di una realtà, i film di Cioni sfuggono a ogni categorizzazione. Sono composti di diversi campi – ci si trova un po’ di sociologia, frammenti di Storia, molta semiotica – ma non si lasciano incasellare. Un movimento perpetuo – forse il risultato di uno spirito nomado – li anima.

Italiano, nato in Francia e cresciuto a Bruxelles, Cioni ha vissuto – e vive ancora – a cavallo tra due culture, due patrie, due lingue senza appartenere veramente a una delle due. Molto più che il suo amico Claudio Pazienza, è il tra due mondi: l’Ulisse che non è mai tornato e trova la sua vera identità in un ritorno sempre prolungato. In tutti i suoi film una questione torna incessantemente: dove sono?

Nel viso dell’altro Cioni trova una risposta possibile. Di fronte all’incertezza dell’ “io”, l’altro – con la sua storia, la sua cultura, la sua lingua, il suo immaginario – diventa una sorta di rifugio sotto il quale piantare la sua tenda. Questo è evidente in Nous/Autres, una sorta di manifesto estetico e etico della sua arte.

Innanzitutto, il soggetto che diventa plurale, il “noi” invece dell’”io” del cinema etnografico. Gli altri entrano in questo approccio come elementi interni alla comunità. A partire da questa dialettica di inclusione e distanziazione, Cioni concepisce i suoi film. Questa prospettiva si traduce in un approccio veramente singolare : Cioni non ha l’atteggiamento del documentarista che afferma la sua posizione guardando gli altri : non gli interessa nemmeno riprodurre il suo incontro in modo diretto, tanto che trova ogni volta un dispositivo che rilancia la scena ad un altro livello. Questo avviene spesso attraverso la finzione: l’uso di testi scritti in anticipo, di attori che si appropriano della parola dei testimoni, di scene provate davanti alla macchina da presa. .. Quando si guarda un documentario si ha l’impressione che la realtà preesista allo sguardo del cineasta : quando si guarda un film di Giovanni Cioni si ha l’impressione che la realtà si costruisca davanti ai nostri occhi, nel movimento stesso del film,

I miei film sono sempre da inventare”

Per realizzare un film, bisogna prima dissolvere il legame ordinario, quello che lega un oggetto al suo uso o una persona al suo ambiente. Bisogna trovare altre relazioni. Per fare questo, Cioni ha molto lavorato la contaminazione con le altre arti: il movimento astratto della danza contemporanea, la costruzione di uno spazio fittizio propri al teatro, la definizione di un gesto o di un’espressione delle arti plastiche, fanno ormai parte del suo linguaggio. Prima e accanto ai lungometraggi ha realizzato film sperimentali che lo hanno condotto ad epurare il suo discorso.

Che sia all’interno di una forma diretta come in Temoins Lisboa aout 00, o all’interno di una composizione come ne La Rumeur du Monde, la materia è sempre presente allo schermo. La grana degli oggetti (i teschi di In Purgatorio), il colore delle scene (i costumi in Lourdes Las Vegas), la testura dei luoghi filmati (la casa vuota in Nous/Autres), rilevano di un rapporto intimo con tutto ciò che appartiene al reale. Ma questa intimità si definisce attraverso il filtro di uno sguardo, uno sguardo che – nutrendosi di cinema portoghese (da Paulo Rocha a Joao Botelho senza dimenticare Manoel de Oliveira) e giapponese (da Oshima a Ozu) – ha appreso a vedere l’invisibile nel visibile. In Purgatorio resta fino ad ora il miglior esempi di quest’attitudine. Certo, la scelta di una città come Napoli dove l’anima errante, il fantasma, l’angelo o il diavolo che sbucano ad ogni angolo di strada, ha molto aiutato. Ma è vero che Cioni ha realizzato un film dove la città stessa sembra una creazione dello spirito. Basta guardare il lavoro sulla colonna sonora per capire quanto il sogno faccia parte del progetto. Si tratta di un cinema profetico, capace di vedere aldilà della realtà, di porre delle domande senza fornire risposte, quello verso qui Cioni tende.

Bisogna ascoltare un film”

Prendiamo Lourdes Las Vegas, un film dove la parola viene da un testo scritto e messo in scena prima, un film dove l’inquadratura è spesso sorprendente, nel modo in cui sconvolge l’idea preconcetta di “spettacolo filmato”. Malgrado la sua musica assordante, le sue metafore (la vergine, il bambino…), la sua teoria di costumi, trucco e gesti, il film colpisce per il suo silenzio. Un silenzio che appartiene ad un altro livello che quello della realtà filmata, e che traduce la solitudine metafisica dei personaggi. Un silenzio che si nutre del rumore – un po’ come i rari momenti di sospensione nei quali si lascia andare l’affabulatore Jan in Nous/Autres.

Il silenzio è indispensabile non solo per ascoltare l’identità del personaggio ma anche per permettere allo spettatore di prendere posto nel racconto. In altre parole: il silenzio è una questione di ascolto. E l’ascolto crea il fuoricampo dell’immagine. Cioè lascia la porta aperta ai nostri desideri e al nostro immaginario.

Figlio del cinema moderno, Cioni si apre a soggetti che non gli appartengono (uno spettacolo di teatro, des profughi della seconda guerra mondiale, una città che non aveva mai visto prima) : filma delle persone per tessere legami; fabbrica i suoi film al montaggio dopo avere ascoltato le immagini e capito il ritmo che le rende vive. Questa energia, che il lavoro di montaggio cerca di tradurre, permette al film di essere un’esperienza del mondo. Ma questo è possibile ad una condizione, perché il mondo esiste nella pluralità del soggetto e nella condivisione. Se fare un film vuol dire fare esperienza del mondo, trovare il suo posto nel mondo, è perché il film stesso si iscrive in un percorso di definizione dell’identità che concerne sia il cineasta che le persone che incontra, personaggi e pubblico.