il cinema documentario e la recita della vita
Testo originale italiano di un testo tradotto in spagnolo e pubblicato nel link seguente
https://ojs.uv.es/index.php/zibaldone/article/view/25615/pdf_1
Cosa senti dentro di te? Quella è la verità. Ma non devi nominarla, che appena la nomini svanisce e non c’è più. Il mondo fuori. Fuori, in carcere.
Non è Sogno è un film girato con i detenuti del carcere di Capanne (Perugia). All’inizio doveva essere un laboratorio di due mesi. Abbiamo deciso di proseguire, e l’esperienza è durata 9 mesi.
Quando mi hanno proposto di immaginare un progetto in carcere, cercavo quacosa che potesse rompere lo sguardo sul “carcere degli altri” – nel senso in cui sono sompre gli altri, non noi, ad essere incarcerati e che devono rendere conto. Quando si dice che il carcere è lo specchio della società, bisogna allora cercare di vedersi noi, in questo specchio.
Mi è venuto in mente il film di Pier Paolo Pasolini, Che Cosa Sono le Nuvole, in cui una compagnia di uomini-burattini interpreta l’Otello di Shakespeare.
In particolare la scena nelle quinte, dove il burattino Otello (interpretato da Ninetto Davoli), che nel copione deve uccidere Desdemona, si interroga sul perché debba compiere il suo destino infausto ed essere un assassino, e su cosa sia la verità, quello che pensa lui di se, quella che pensano gli altri, gli spettatori, o quello che pensa il burattinaio.
Mi sono detto che potevo partire da questa scena, proporla ai detenuti partecipanti, come un gioco: proviamo a rifare, reinterpretare la scena, reimmaginarla, poi vedremo cosa nascerà, ma per cominciare lavoriamo alle prove, alla recita. Lavoriamo alla recita, insieme, alla difficolà di recitare, di mettersi di fronte alla telecamera.
Il laboratorio si svolgeva nell’aula polivalente del carcere. Li abbiamo adibito il dispositivo, il set delle riprese. Sul palco abbiamo installato un chroma key e due luci minimali. Il chroma key, un telo vede artigianale, doveva servire per creare in sede di postproduzione uno spazio per l’azione, Per me era importante creare uno spazio che fosse “altro” rispetto al carcere. Mi sono poi reso conto che l’astrazione procurata dal verde concentrava l’interesse sui visi, sulle parole.
Tutto succede a questa che diventa una scatola magica.
I racconti personali spesso partono da questo contesto. Come se la vita vera precipitasse sul set e ne ripartisse.
La recita, la sincerità e i silenzi. Il dispositivo del set fa parte del racconto del film, perché il film è anche il racconto della sua esperienza. Un film nel film. O un film del film.
In questo film “recitato” si ripetono le stesse battute, “io sono un assassino…”, “qual’è la verità”, un modo di giocare di questa ripetizione per andare oltre. Verso una verità umana, oltre le repliche, oltre l’interpretazione. Verso il silenzio. Perchè “se fai silenzio, senti qualcosa dentro di te, e quella è la verità ma non la devi nominare sennò non esiste più”, per parafrasare Totò.
Il dispositivo del set doveva essere un innesco per andare olte la recita, verso il racconto. L’invenzione. Non sapevo di preciso cosa. L’esperienza del film è anche scoprire che cosa ne nasce. Tutto ha iniziato quando Domenico D. ha chiesto di registrare un messaggio per sua figlia quattordicenne, che non ha visto crescere, e di mandarglielo. L’abbiamo registrato come una scena del film, sul set, con il silenzio, il motore che gira, il ciak di inizio.
Il messaggio è stato mandato. Altri hanno chiesto di registrarne uno. S stabiliva così una relazione di fiducia.
Parlavamo molto, la mattina, prima di iniziare le riprese. Nascevano discussioni. Decisi di portare sul set alcune discussioni. Metterle in scena, farle interpretare e suscitarle di nuovo. Come in una recita della vita, più vera che in una discussione regsitrata, perchè è un gioco ed è sincero. Sincero perchè è un gioco.
Queste recite a partire dalle discussioni erano sempre inattese, un pè come nei duelli poetici. C’è il gioco, il fatto di mettersi in gioco. ci sono gli altri che commentano e istigano.
La recita diventa recita della vita, della propria storia, recita di una verità umana.
La recita, il dispositivo della messinscena, l’affabulazione vera, si ritrovano nel Pasolini di Che Cosa Sono le Nuvole e di La Ricotta. C’è una vertigine di identità: Ninetto è Ninetto, è (interpreta) il burattino che interpreta Otello, è Otello. E questa vertigine permette di interrogare, in carcere, il giudizio e l’identità. Perchè ognuno, in Non è Sogno, è Ninetto/Otello à che deve compiere il destino scritto nel copione, uccidere Desdemona, scatenando l’ira del pubblico che assalta il palco e lo malmena – per finire buttato fuori, nella monnezza, dove scopre “la bellezza del creato”, le nuvole nel cielo azzurro.
La messinscena e la verità- Oltre la messinscena.
Compiere il destino fin al sacrificio – per uscire dal destino, magari anche un attimo solo.
I sogni, la vita è sogno. Come stimolo di riflessione e di lavoro, nel corso della lavorazione, proposi di lavorare su La Vita è Sogno di Pedro Calderon de Barca. La storia del Principe recluso dalla nascita, per volere del padre, in una rocca isolata, fuori dal mondo. Il Principe non ha mai visto il mondo, non ha mai visto un altro essere umano. Per una profezia il padre teme che il figlio lo ucciderà. Ma preso dal rimorso, decide di farlo narcotizzare e portarlo nella reggia. Dopo qualche giorno il padre lo fa addormentare e riportare nella rocca. C’è un dialogo dove il Re cerca di convincere il fglio che quello che ha vissuto nella reggia fosse un sogno. Il Principe si ribella, sa che non era un sogno. Per il film abbiamo lavorato su questo dialogo – un dialogo che parla di prigionia, del mondo fuori.
Fuori, in carcere Il set del film rimanda ad altri spazi all’interno del carcere, le sezioni, le celle, e rimanda ad una campagna, orti, campi, che si scopre essere la campagna attorno al carcere, da dove si scorge il carcere, come se fosse il Castello di Kafka.
Questi luoghi, reali ma altrove, arrivano come un eco. Anche gli spazi reali del carcere sono lontani, altrove. Come se fossero sognati, nella loro irrealtà. Un sogno dentro ad un sogno, come dice Totò. Nel film arrivano con il racconto di sogni dei protagonisti detenuti.
ALTRI APPUNTI – SULL’ ESPERIENZA DEL LAVORO IN CARCERE
La scelta dei partecipanti. Avevamo organizzato un incontro di presentazione aperto a tutti i detenuti, con la proiezione di Che Cosa sono le nuvole e di un moi film, In Purgatorio (che si svolge a Napoli).
Chi voleva partecipare al aboratorio doveva iscriversi e avremmo fatto una scelta, perchè avevamo fissato come tetto quindici partecpanti. Si iscrissero in venti e li accettai tutti, non me la sentivo di fare una scelta. Con le liberazioni e i trasferimenti alcuni sono andati via ma ne osno arrivati altri, per cui nel corso dei 9 mesi di lavorazione hanno paretcipato una trentina di detenuti.
In realtà non c’è stata nessuna scelta da parte nostra. Ho capito solo in corso che quelli che si sono iscritti erano stati scelti o invitati dagli educatori e dal personale di sorveglianza, per alcuni come premio (qui entriamo nella logica infantilizzante del carcere), per altri perchè in un modo o nell’altro l’esperienza poteva aiutarli. L’ho capito perchè alcuni, che ho conosciuto in seguito, mi hanno detto che volevano iscriversi ma non gli è stato concesso. Per altri anora la questione è stata in sospeso fino all’ultimo, perchè alcune guadie temevano la loro « pericolosità » (e sono due dei protagonisti, Dobre e Domenico).
Le vicende individuali. Entrare in carcere significa entrare in un mare di sofferenze, disperazioni, silenzi che urlano di essere ascoltati. Un mare di storie – e bsognerebbe essere capaci di ascoltarle. Come ascoltare ? Come rispondere al bisogno di parlare ?
Innanzitutto con il tempo, e le condizioni in cui lavoravamo non lasciavano tempo. Il tempo in carcere è contingentato come lo spazio. I partecipanti arrivavano nell’aula dove lavoravamo dopo l’appello del mattino, sezione per sezione. Ripartivano per il pranzo, tornavano dopo pranzo e ripartivano per l’appello di fine pomeriggio. In tutto, per ogni giornata avevamo in realtà cinque ore per stare insieme e lavorare.
In queste cinque ore io mi premuravo che ci fosse una condivisione del lavoro, uno scambio che non escludesse nessuno. In un certo senso facevo il capocomico, ascoltavo, proponevo, rilanciavo, suggerivo. Ma ognuno veniva con la sua storia e voleva che la ascoltassi. Non se la sentivano necessariamente di condivivderla con gli altri. Avevano bisogno di confidenza.
In questo m aiutava la troupe. Marta Bettoni e Maurizio Giacobbe, che hanno organizzato il laboratorio, Annalisa Gonnella che mi assisteva alla regia ed era fotografa, Giallo Giuman, l’operatore alle riprese, Daniele Saini l’operatore al suono. Loro ricevevano le confidenze quando non avevo tempo, e poi me le raccontavano.
Per principio io non ho mai chiesto nulla delle loro vicende giudiziarie, non volevo sapere perchè fossero lì, non volevo focalizzare sulla « colpa », il giudizio, volevo uscirne. Se volevano erano loro a raccontare.
Non sapevo niente della storia che mi avrebbero raccontato.
Non sapevo chi fosse Domenico al momento del messaggio alla figlia (lui poi mi portò il quaderno che aveva scritto con un’educatrice volontaria sulla sua storia, il padre mi voleva mandare i suoi fascicoli giudiziari)
Non conoscevo la storia di Dobre che mi diceva che avrei dovuto fare un film sulla sua vita. Certo aveva una fama e un viso da « cattivo » che lo accompagnava. Una reputazione di violento. Aveva quindici anni quando entrò in carcere, per omicidio, ne aveva già fatti dieci al momento del film.
Un altro dalla faccia di « cattivo », Ismail, arrivò a laboratorio avviato e all’inizio stava a guardare senza intervenire. Diceva che non se la sentiva, che parlava male l’italiano. La fiducia nacque per via della canzone di Om Kalsoum, la diva della musica egiziana. Era stupito che io la conoscessi e la amassi, malgrado non fossi egiziano. Lo ripesi mentre ballava e cantava. Poi mi disse che voleva anche lui recitare « che cos’è la verità », la scena di Cosa sono le Nuvole.
E mi racconta la sua verità. La storia che lo ha portato dentro, come ha perso tutto, e soprattutto « l’angelo della sua vita ».
La responsabilità. Devo fare i conti con la responsabilità nei confronti di chi racconta. Io non indago, ascolto il racconto. Non giudico, anzi cerco di uscire dal discorso del giudizio. Ma non posso ignorare che loro sono sempre sotto giudizio, che il racconto può essere pregiudiziale, per gli sconti di pena, la scarcerazione anticipata. Uno di loro ha chiesto di non mettere il suo racconto nel film, una macchina rubata, l’inseguimento dei carabinieri, l’incidente, i suoi compagni morti, lui in coma, al suo risveglio i carabinieri gli dicono cosa ha combinato e lui non si ricorda di nulla – e ho accettato.
Tutto il materiale filmato è stato visto dalla direzione del carcere prima di avere il nulla osta. Era previsto negli accordi. C’erano delle regole. Non avrei dovuto filmare le sbarre delle finestre, per esempio, ma hanno lasciato passare le due inquadrature di finestre. Hanno lasciato passare tutto, ma hanno fatto delle osservazioni proprio sul racconto di Ismail.
Poteva nuocergli, perchè afferma : Io non ho sbagliato. Nella logica penale uno deve mostrarsi pentito della sua colpa. Ismail racconta che tre connazionali lo hanno aggredito e massacrato di botte per rubargli i risparmi di anni di lavoro, che lui ha reagito con furia, riducendo in fin di vita due di loro. Dal suo racconto non è chiaro se siano morti, e io sul momento non ho chiesto precisazioni.
Anche Domenico dice, come una sfida : Non ho niente da rimpiangere
Qui due parole sulla sua vicenda. Lui ha sempre negato l’omicidio feroce di cui lo hanno accusato. Un edicolante accoltellato per una rapina di 100 euro. Io ero a Napoli in quel periodo, a girare In Purgatorio, un precedente film, e mi ricordo l’atmosfera di costernazione di fronte al fatto, alla sua gratuità. Non era un episodio di guerra di camorra. Bisognava un colpevole e un colpevole c’era, un ragazzo di strada con anni di rapine alle spalle. Lui – e molti a Napoli – dicono che è stato dato. Una falsa testimonianza pagata da un boss per avere la pace nel rione. Il padre di Domenico mi voleva dare il suo fascicolo giudiziario.
Al momento del film Domenico viene da anni di rivolta, autolesionismo, tentativi di suicidio. Decide di partecipare al progetto, chiede di registrare un messaggio per la figlia. La figlia riceve il messaggio, viene a trovarlo. Suo padre muore. Domenico capisce che non ha scampo, se vuole uno spiraglio nella sua vita, decide di comportarsi bene. Con il tempo riesce ad avere un permesso per lavorare fuori. Poi succede un incidente. Un detenuto ha un’overdose, viene ospitalizzato, sembrerebbe che la droga sia stata fornita da Domenico (e qui bisognerebbe aprire un capitolo sulla tossicodipendenza tollerata se non favorita, in carcere). Fatto sta che nel panico Domenico evade, un’evasione di un giorno. Lo ritrovano la sera stessa, a Perugia, nei pressi della stazione, stanco, affamato.
Lo mettono in isolamento per qualche tempo, ma decidono di non accanirsi.
Ho rivisto Domenico di recente. Confida nel fatto di poter ottenere di nuovo un permesso.
Racconto tutto questo perchè la mia posizione è di ascolto. Io ascolto il racconto che mi fanno, non giudico. Ascolto una persona. C’è un rapporto personale che nasce, empatia, vissuto – e nel caso di Domenico il fatto che io fossi a Napoli al momento della vicenda e del suo arresto era come un segno.
Filmare nelle sezioni. Io non ho fatto un film sul carcere ma è chiaro che ci sarebbe molto da dire sulla condizione carceraria in Italia (personalmente sono per l’abolizione).
Non avevo dunque l’intenzione di girare nelle sezioni, nelle celle, la vita carceraria, mi bastava quello che nasceva nel contesto del set.
L’insistenza dei detenuti ci ha portati a riprendere nelle sezioni. Volevano mostrarci dove vivevano, offrirci un caffé.
Qui entra in gioco il condizionamento.
Innanzitutto per potere girare nelle sezioni, tutti gli altri detenuti (non partecipanti) devono essere rinchiusi in cella (di giorno vige la cosidetta sorveglianza dinamica » dove i detenuti possono circolare liberamente nella loro sezione). I nostri detenuti (i partecipanti) si muovevano sotto gli occhi degli altri – che giustamente li deridevano o li insultavano.
Poi, soprattutto, i nostri si mettevano in situazione di autorappresentazione. Si atteggiavano, come i detenuti nei film e serie che vedono in televisione.
Era tutto falso. Le sole cose che ho tenuto erano delle scene più intime nelle celle, una partita a scopa, il caffé, le foto di famiglia.
Come avanzava la scrittura e l’elaborazione delle scene.
La proposta iniziale fatta a ognuno era il rifacimento della scena di Cosa sono le nuvole. Uno poteva partecipare anche da dietro le quinte, come suggeritore, fare il ciak. Era importante che tutti fosserocoinvolti, e il pretesto della scena da provare e riprovare era anche un modo per imparare a stare davanti alla macchina da presa.
Su quel punto di avvio si sono innestate le richieste di messaggi.
Ho proposto, andando avanti, di estendere le prove a La vita è sogno di Calderon de Barca.
Chiedevo loro di raccontare sogni.
Poi c’erano le discussioni che proponevo di rimettere in scena, le « recite ».
Io scrivevo giorno dopo giorno idee e proposte, una sorta di copione di lavorazione. Proponevo delle cose da fare per i giorni seguenti. Dovevo però fare i conti con i transferimenti e le liberazioni. Per esempio dopo le prime settimane Domenico è stato trasferito, ed è tornato dopo qualche mese, portando il quaderno. Nel frattempo arrivavano nuovi partecipanti e portavano le loro storie. Poi magari era prevista per un certo giorno una scena con uno di loro, ma proprio quel giorno c’era una convocazione o un colloquio. Navigavamo dunque nell’imponderabile. Ma anche l’imponderabile è necessario : una mattina ho ripreso dei cavalli nei campi attorno al carcere, ne ho parlato a Domenico, e lui mi ha evocato la sua passione per i cavalli.
Per l’anteprima del film avevamo ottenuto che coloro che potevano avere un permesso venissero accompagnati alla proiezione, in un cinema di Perugia. Era importante farla fuori. Era importante per loro, vedere gli altri che li guardano nel loro film. Come a scoprire che esistono.
Per gli altri abbiamo organizzato la visione in carcere. Mi ricordo lo stupore dui Domenico, di vedersi davanti ad un cielo di nuvole, lui che da anni non vede il cielo.
Vorrei dire qualcosa su ognuno di loro, sulla loro vita dopo il film.
Molti sono ora liberi (tra cui il saggio Aziz, dopo trent’anni di carcere) o in affidamento. Dobre ha chiesto di scontare il resto della sua pena in Romania. Alcuni sono tornati in Egitto. Ismail, Samir.
Un pensiero per Kamal. A poco più di un anno dalla sua scarcerazione Kamal si è suicidato. Era un ragazzo ventenne, dall’allegria feroce e disperata, pasoliniana, quando parlava del mondo fuori, « pieno di sciacalli ». Era cresciuto a Terni dove suo padre faceva il boscaiolo e lui lo aiutava. Dopo la scarcerazione era andato per qualche mese in Marocco, poi era tornato.
Ci sarebbe molto ancora da raccontare. Sul carcere. Sulla recita della vita.
La domanda è che cosa racconta di me, di ognuno di noi, la condizione carceraria. Si tratta di andare oltre la visione rassicurante, spesso condiscendente, sul “carcere degli altri” o la curiosità affascinata dell’inferno carcerario..
Siamo in un film, un film nel film, con degli esseri umani, innanzitutto, che ci parlano dell’uomo, della condizione dell’uomo, del rapporto all’esistenza, alla realtà del mondo, il mondo “fuori” che è quello proiettato o immaginato sul chroma key. La vita è sogno, il sogno della vita – di una vita alla quale non sappiamo più se apparteniamo. Una vita di cui attendiamo segni di esistenza, a cui mandiamo messaggi, verso cui immaginiamo un ritorno, atteso di rinvio in rinvio.
Una vita che non è un sogno – come vorrebbe farci credere il re padre del dramma di Calderon. Non è sogno, tocco e vedo. So cosa mi appartiene. So di essere al mondo. So che tornerò nel mondo.
Giovanni Cioni, luglio 2022