Perché se riesce a portarci a raggiungere coloro che percorrono e abitano la sua Itaca immaginaria, è grazie ad una scrittura che è un impresa. Quel che gli importa è quel movimento che da qui a laggiù ci trascina e ci riporta, questo senso del viaggio e del suo necessario ritorno. Allora darà al suo film questo lento bilanciamento del flusso e del riflusso, questa pulsione sotterranea del mare che torna incessantemente a porci la questione della riva dove si naufraga e di cui l’arco sincopato va a ritmare tutto il film.
Per Giovanni Cioni ogni sequenza di Per Ulisse richiede che la si lasci per meglio tornarci ma in modo diverso, come se caricati di una maggiore presenza. Ed è per questo he frammenterà il film con dei neri più o meno lunghi, che capitano tra le sequenze come una sospensione del tempo, un’assenza di movimento, un buco nero. E lì, in questa sorta di svenimento, inscrive e mescola le frasi dell’Odissea e le parole di coloro che gli parlano, in una parola unica che risuona per tutto il film.
E quel che pareva disperso come uno specchio scoppiato di cui l’immagine ci sfugge, va a ricomporsi e a fare senso, ogni frammento rinvia a tutti gli altri in un mosaico di cui allora facciamo tutti parte. Così la persona filmata non sarà mai più sola, intorno a lei gli altri parlano, si muovono, non sono mai lontani, nel campo, fuoricampo, e quello che li collega, li tiene insieme, non è una certa idea dell’altruismo ma l’evidenza di un possibile divenire comune.
Per Ulisse è un film raro e importante. E se si conclude, in un viaggio al mare, con questa donna che marcia risoluta contro le onde, verso l’infinito dell’orizzonte e si tuffa e rituffa ancora, gioiosa e decisa, è senza dubbio per dirci, in questo ultimo tentativo di partire, che niente è mai finito, mai concluso, chiuso, morto. Che tutto rimane da vivere.
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